Brainstorming sulla leadership

Brainstorming sulla leadership

Vi siete mai chiesti cosa significa “leadership”?

In LEADIt ce lo chiediamo spesso.

Anche se sarà un po’ lungo, voglio raccontarvi di un meeting speciale.

A differenza dei tipici incontri del sabato, nella stessa stanza sono presenti sia i ragazzi del primo che i ragazzi del secondo anno, ovvero coloro che stanno per concludere il programma in LEADIt. I due gruppi sono profondamente diversi, nelle dinamiche, nella storia, nelle esperienze: questa è l’occasione per un confronto diverso dal solito, arricchente sia per i veterani del gruppo sia per quelli con meno esperienza in LEADIt. 

«Il tema di oggi è: “Leadership e essere leader», dico rompendo il solito brusio iniziale. Continuo, «A voi la parola. Come sempre, metodo “poc corn”. Chi è pronto a saltare e dire la sua si faccia avanti.»

A rompere il ghiaccio di quello che sarà un brainstorming sulla leadership sono Niccolò ed Erik, del secondo anno. Dentro di me sorrido, perché vedo l’educazione nell’aspettare il proprio turno, ma al tempo stesso la voglia di condividere il proprio pensiero.

Una parola senza traduzione.

 «A me non piace il modo in cui viene interpretata la definizione di leader», dice Erik.

Come posso dissentire da questa affermazione? Leadership è una parola che addirittura non trova corrispettivo in italiano, mentre in altre lingue ne esiste addirittura traduzione: “liderazgo” in spagnolo, “manighut” in ebraico, “fuhrung” in tedesco, “vodstvo” in sloveno,liderança” in portoghese, solo per citarne alcune. Ma, al di là delle parole che possono tradurre il termine leadership, la questione più importante è il significato che le attribuiamo. Nella lingua italiana, leader è spesso colui che si sente superiore, che vuole primeggiare sugli altri. In LEADIt dedichiamo del tempo a far sì che i ragazzi riflettano sul vero significato del termine inglese, andando alla ricerca della loro propria ed unica definizione di questa parola, quella che li veste perfettamente, che calza a pennello.

Un ricercatore al servizio.

«La leadership è la capacità di trasmettere un’idea di cambiamento», continua Erik. «Questa capacità implica che ci siano dei follower che scelgano di mettersi al servizio, e quindi che contribuiscano all’idea del leader. Il leader però non è solo questo, è anche un ricercatore. Leader è colui che riesce ad individuare i punti di forza nell’altro e, conscio dei propri limiti, riconosce la possibilità di essere aiutato dagli altri nel raggiungimento del suo obiettivo, ovvero in un progetto che vada a beneficio della comunità. Non si tratta di “sfruttare” i punti di forza dell’altro, ma innanzitutto di individuarli nelle altre persone e incoraggiarle a svilupparli.» 

Condivido l’uso dell’espressione “scelgano” perché rivela un particolare atteggiamento del leader a cui non siamo troppo abituati: la scelta di servire un’idea. Inoltre, mi ritrovo nel pensiero di Erik nell’idea di leader come ricercatore. Essere leader in fondo è anche questo: scovare il potenziale delle persone con cui si lavora e fare in modo che venga sviluppato e impiegato a beneficio della collettività. 

Una domanda piccante.

A questo punto è il momento di Domiziana, del primo anno: 

«Da quel che ho capito dal vostro discorso, Niccolò e Erik, leader è la persona che vede delle potenzialità nelle altre persone e che le aiuta a svilupparle in modo da migliorare, attraverso il progetto, il mondo e la società in cui si vive. Ma quindi: leader e follower hanno la stessa importanza?» 

Ancor prima della domanda, mi incuriosisce il modo, più o meno consapevole, con cui Domiziana ha posto il suo interrogativo, senza cercare lo scontro, ma con il desiderio di aggiungere carne al fuoco per il bene della discussione, alimentandola, rendendola più interessante, in perfetto stile LEADit. 

Comunemente, saremmo portati a pensare al leader come la persona più importante in una relazione di leadership: leader è colui che salva la situazione, che conosce la direzione, che ha le risposte. Quanti articoli, quanti corsi in cui ci viene trasmesso questa idea riduttiva della leadership. Penso a tutte quelle aziende che dedicano ore ai corsi sulla leadership “a tappeto”, con il rischio che poi, alla fine, alla domanda di Domiziana la risposta sia un secco “no”. Essere leader non è un traguardo in una corsa che stabilisce chi viene primo e chi viene secondo, ma un punto di partenza di un processo di cambiamento, una maratona senza fine.  La vera leadership non ha nulla a che vedere con i certificati e i diplomi. Essere leader è un percorso molto più lungo di un seminario di una settimana e ha a che fare con la propria identità.  

Niccolò si sente chiamato simpaticamente in causa da Domiziana: 

«Certo, hanno pari importanza. Secondo me è questo che differenzia il boss dal leader. Il boss si impone come capo, al di sopra dei suoi collaboratori, il leader invece si pone sullo stesso piano dei follower: agisce, mostra la strada.»

Rifletto sulla risposta di Niccolò che rischia di confondersi tra i tanti stereotipi diffusi dai presunti guru della leadership. Penso alle vignette nei social che contrappongono il boss che dall’alto ordina ai collaboratori-schiavi di trainare una pesante pietra con l’immagine del leader che invece si trova in prima posizione a tirare lui stesso il masso insieme agli altri. Questa contrapposizione è qualcosa di ormai scontato, sentita in tanti seminari, che tuttavia non mi convince fino in fondo. 

Niccolò continua: 

«Tuttavia il leader non ordina agli altri di fare qualcosa, piuttosto dà l’opportunità agli altri di fare quella cosa. Se il follower riconosce il valore della visione da raggiungere, allora sceglierà di mettersi in gioco.»

Ora il dibattito si fa interessante allontanandosi dagli schemi comuni. Il leader offre l’opportunità di fare qualcosa, opportunità che può essere anche rifiutata dal follower. Avrei dell’altro da aggiungere alla risposta di Niccolò, ma non faccio a tempo a prendere parola che c’è Isabella ad intervenire. In LEADIt bisogna essere veloci e pronti a fare “pop”, e questo vale anche per il facilitatore! 

«Anche perché senza follower non c’è leader! E’ la conditio sine qua non.»

I ragazzi del secondo anno sembrano scatenati. 

«Secondo me c’è un equivoco nella parola “importanza», riprende Erik. «C’è una differenza tra ciò che fa il leader e ciò che fa il follower, ma non la chiamerei “importanza”, la chiamerei proprio “leadership”: è questo ingrediente in più che consente al leader di compiere determinate azioni. L’importanza è reciproca tra leader e follower: ognuno sente necessaria la presenza dell’altro.»

Mi soffermo a pensare alla relazione leader- follower: una relazione a doppio senso, uno scambio che può avvenire in modo autentico solo quando leader e follower sono posti sullo stesso piano. Non penso di averne mai parlato ai ragazzi in modo esplicito, ma è curioso come qualcuno abbia comunque catturato questo aspetto nella sua esperienza di leader in LEADIt. 

Rischiare o chiedere aiuto?

«Erik mi ha fatto venire in mente una caratteristica del leader» interviene Alessandro. «Il leader deve essere conscio dei propri limiti e non deve in alcun modo vergognarsi di chiedere aiuto agli altri. Al tempo stesso, per quelle cose che sa far bene, non deve avere paura di metterle in pratica, di andare avanti. Per quella che riconosce come una propria abilità, deve avere il coraggio di agire, anche quando gli altri gli dicono che sta sbagliando tutto, anche di fronte a critiche distruttive. Non cedere.»

«Condivido quello che ha appena affermato Alessandro» interviene Isabella «Provo a fare anche quello che non so fare, ma allo stesso tempo riconosco il mio limite, ovvero quando è il momento di chiamare in gioco gli altri.»

Mi chiedo quanto sia vero che in alcune occasioni, pur riconoscendoci in certe abilità, ci nascondiamo, lasciamo fare ad altri, rinunciamo alle nostre responsabilità. Mi torna in mente il video recente di un giocatore della NBA, Lillard, che in una situazione di parità tra squadre si trova improvvisamente in mano le sorti della partita e 12 secondi da giocare. Lillard può decidere di passare la palla a qualcuno che è sotto canestro sperando di riuscire a superare uno dei migliori difensori della NBA, o può tentare il tiro da molto dietro la linea da tre punti. Lillard sceglie di rischiare. Scelta discutibile e contestata dalla maggior parte dei leoni da tastiera che si sono scaraventati su di lui per questa decisione. Canestro sulla sirena: i Portland Trail Blazers vincono 118 a 115 gli Oklahoma City Thunders. 

Essere leader significa divenire consapevoli delle proprie capacità e metterle a servizio, senza fuggire dalle proprie responsabilità. Spesso implica una buona dose di autostima e coraggio di rischiare. 

Certo, Isabella ha ragione, il leader non è un supereroe onnipotente. Si deve saper riconoscere quando è meglio passare la palla a qualcun altro e lasciar fare a chi in quella situazione può andare a canestro, per il bene della squadra, della comunità.

La propria identità di leader.

«Aggiungo anche che, oltre a vedere il potenziale negli altri, un leader deve saper riconoscere quali sono i bisogni degli altri. Se dovessi pensare ad una parola dico “sensibilità”. Un leader deve saper essere sensibile, al punto giusto. La sensibilità è un punto di forza.»

«Isabella, puoi esemplificare quanto hai appena affermato, calandolo sull’esperienza che hai vissuto implementando il tuo progetto?»  le chiedo. 

«Mi sono occupata di un progetto inerente allo sviluppo dell’autostima, della conoscenza della propria persona e consapevolezza attraverso la musica, al canto. Tutto questo si è svolto all’interno di una casa famiglia. Con altri tre ragazzi del liceo che sono musicisti abbiamo creato degli incontri con sei ragazzi di una casa famiglia. Ognuno di questi ragazzi ha bisogni e vissuti diversi, capacità ed esperienze differenti. Nessuno di noi ragazzi del liceo aveva competenze in psicologia o in ambito sociale. Ci siamo dovuti ingegnare per riuscire a far superare diversi ostacoli ai ragazzi della casa famiglia e fare in modo che potessero cantare. Qualcuno aveva il timore del microfono, altri non sapevano rispondere alle nostre apparentemente banali richieste. Bisogna essere sensibili per capire quando è possibile “tirare” e il limite che non può essere superato. Devi capire quando ti devi fermare, parlare con chi hai davanti, capirne i bisogni. Questa esperienza mi ha rafforzato come leader. Non sono capacità scontate quelle che io e anche gli altri ragazzi del mio team siamo riusciti ad acquisire.»

Penso sia proprio implementando un progetto che i ragazzi abbiano occasione di scoprire la propria identità come leader. E’ solo “sporcandosi le mani” che possono comprendere le loro capacità e limiti, individuare aree di crescita, provare, sbagliare, fallire, riprovare. Se poi il progetto e il percorso in LEADIt è davvero sfidante, di quelli che servono ad alzare l’asticella, allora è probabile che i ragazzi possano scoprire la propria ed unica identità di leader: l’identità di nessun altro. E quando questo momento di consapevolezza arriva, da facilitatore, posso dire che è uno spettacolo davvero emozionante. Perché? Perché esistono stili e modelli di leadership studiabili dai libri e dalla storia. Ma nessuno di questi modelli funzionerà per noi. La domanda quindi da porsi è: quale è il nostro modo di essere leader? Quello che è solo nostro, che non è imitabile. Se ci limitassimo a copiare lo stile di qualcun altro, infatti, risulteremmo poco credibili, poco autentici. Sarebbe come cercare di entrare nelle scarpe di qualcun altro: magari ci riusciremmo, ma potremmo trovarle leggermente strette, leggermente troppo larghe, sformate rispetto al nostro piede, non perfettamente comode, non perfettamente adeguate rispetto alla strada che ci si trova a percorrere. 

Interviene Pietro, tra i veterani di LEADIt: 

«Il leader deve essere onesto con sé stesso. Se io ho paura, non devo dimostrare di non aver paura. La paura è un sentimento come gli altri. Serve essere autentici: mostrarsi per come si è. Inoltre, un leader è veramente tale quando riesce a far diventare leader chi ha attorno a sé.»

Può sembrare una frase fatta quest’ultima. In realtà è autentica, arriva proprio dal percorso che Pietro sta portando avanti, in supporto alla facilitazione delle giovani leve di LEADIt che hanno iniziato il programma qualche mese fa. 

Il facilitatore ha un po’ questa funzione: di essere leader e fare in modo che altri scelgano di esserlo. Mi trovo spesso a riflettere sulle mie di responsabilità. A volte mi vengono poste tante domande dai ragazzi. Il rischio è di trovarsi a volere risponderle tutte, anche quando magari non si ha una risposta pronta. Essere leader e facilitatore non significa avere la risposta: a volte, o forse spesso, si deve ammettere di non sapere. Ed è meglio farsi scoprire vulnerabili che non autentici. Qui Patrick Lencioni avrebbe molto da raccontare, ma lo lascio per una prossima volta. 

Che leader vuoi essere?

«La mia idea è di essere leader ogni giorno nella mia vita», dice Arianna

Sorrido tra me e me perché, a questo punto, Greenleef sembra letteralmente calare in mezzo al meeting. 

Greenleef intendeva proprio così: un’azione alla volta, una persona alla volta. La leadership è nella quotidianità, comincia facendo la differenza per le persone che hai più prossime, per poi allargarsi a macchia d’olio e coinvolgere altri. Anche la metafora di Morris Khan, fondatore di LEAD, di leader come un ingranaggio che mette in azione gli altri ingranaggi della macchina, può ben spiegare l’idea di Greenleef. 

Ma l’aspetto che Arianna credo voglia sottolineare è di una leadership non come un mantello che si indossa quando si esce di casa, piuttosto è proprio la nostra pelle, qualcosa che è con noi tutto il giorno, che non possiamo toglierci a piacere. 

Continua Arianna esplicitando il leader che vorrebbe essere: «Vorrei essere ambiziosa, decisa, ma aperta allo stesso tempo a ciò che i follower possono darmi. Non considerarmi mai nettamente superiore a loro, anzi. Mi piacerebbe inoltre essere loquace e sensibile.»

Cala il silenzio. 

Passano alcuni secondi. 

Nessuno interviene.

Prendendo spunto da Arianna, ripropongo la domanda: «Che leader siete o vorreste essere?»

«Mi piacerebbe essere attrice», irrompe Greta. «Vorrei essere molto alla mano e adattarmi ad ogni situazione. Voglio dire, non vorrei essere in difficoltà a fare un ruolo piuttosto che un altro. Riflesso sulle persone significa non essere in difficoltà a capirle: mi piacerebbe che quando una persona mi parlasse, io riuscissi a capire tutto quanto mi stesse dicendo. In altre parole: mi piacerebbe essere la presa sul muro a cui uno riesce ad attaccarsi senza tanti adattatori.»

Ci penso e sorrido. Non avevo mai pensato a questa caratteristica del leader. La metafora della presa sul muro che non richiede adattatore va oltre ogni mio tentativo di rendere l’idea dell’essere in “sintonia” con l’altro, o forse, meglio, l’essere in frequenza

«Mi interessa anche il mondo della giurisprudenza e mi immaginerei come magistrato.» continua Greta. «Ecco, non penso vorrei essere uno di quei magistrati stronzi, schematici… Se scegliessi di operare in quel settore sarei un leader “umano”. Non vorrei essere uno stereotipo, ma molto più umano, e giusto, anche se il mio ruolo in quel caso è giusto a priori.»

Essere umano. Quanti leader sanno essere umani oggi? Quanti sanno andare oltre gli schemi, per guardare al caso particolare, con compassione, e prendere una decisione “giusta”? Essere umani significa togliersi una maschera. Implica un atto di coraggio, scoprirsi per ciò che si è veramente. 

Sembra quasi una coincidenza, ma la prossima ad intervenire è Stella che vorrebbe essere leader nel mondo della moda, un settore in cui sembra difficile frequentare essere umani. 

«All’inizio non sapevo come rispondere a questa domanda: che leader vorrei essere? Ho pensato quindi alle caratteristiche che servono nel mondo della moda. Tenacia: continuare a sperare in quello che si crede, ma allo stesso tempo essere pronti e disposti al cambiamento. Motivazione, creatività, essere disposti ad aiutare gli altri, saper riconoscere le capacità dei follower.» 

Rifletto mentre Stella argomenta la sua affermazione su tutte le tematiche che via via cita e che sono incluse nello stesso percorso in LEADIt. Parliamo spesso di motivazione come fattore, o forse meglio definirlo moltiplicatore nella “formula della leadership”. In LEADIt lavoriamo sulla creatività per consentire ai ragazzi di guardare alla realtà da punti di vista nuovi. Trascorriamo molto tempo a parlare di cambiamento e di relazione con gli altri.

Mi fermo a riflettere per un istante al mondo della moda e a quanto i suoi operatori siano tipicamente diversi dall’idea di leader che Stella ha in mente.  Stella avrà molto da fare nei prossimi mesi lavorando al suo progetto. Attraverso di esso avrà l’opportunità di creare un impatto ancora maggiore di quanto potessimo inizialmente immaginare. Una buona notizia, quindi.

Sempre in ascolto.

Accanto a me è seduta Elena che tiene in mano un foglio scritto a mano. Le righe sono fittissime. Tuttavia ha finora esitato ad entrare nella discussione.

«Elena, hai un papiro di fronte a te. Pensi di poter condividere qualcosa con noi di quel che hai scritto o di tenertelo tutto per te?» la provoco scherzosamente. 

«Va beh» risponde Elena, rivelando dietro un timido sorriso il desiderio di condividere il suo pensiero.

 «Il leader deve essere in grado di ascoltare tutte le persone che si rapportano a lui e deve riuscire a coglierne le parti caratteriali, i punti di forza e le idee migliori, riuscendo a dare ad ognuno del gruppo il proprio ruolo e compito, motivandolo quando ne ha bisogno a credere in sé stesso, ma anche nel lavoro degli altri.  Un leader è considerato un esempio, un punto di incontro, una certezza. 

A me piace tanto aiutare gli altri e ascoltarli quando ne hanno bisogno. Vorrei essere un leader che aiuta “quando ci sono casini”: voglio ascoltare gli altri e aiutarli a trovare una soluzione, qualsiasi sia il problema

Il tema dell’ascolto è tra i miei più cari. Mentre Elena legge il suo scritto, la mia mente scappa in mezzo alla pianura pavese, in una villetta in campagna, in compagnia di un gruppo di persone con cui anni fa discutevamo la regola di San Benedetto. Sì, perché spesso i santi hanno qualcosa da insegnare a proposito della leadership. Se poi si tratta di monaci, bingo! I monaci hanno tantissimo da rivelare sul tema e ci vorrebbe più di un meeting di LEADit per discuterne. 

Perché Elena mi ha ricordato San Benedetto? Perché l’antica regola scritta dal monaco agli inizi del 500 comincia proprio con l’imperativo “Ascolta”. E San Benedetto si dice non fosse un tipo poco pignolo nella scelta delle parole… 

San Benedetto è stato un incredibile innovatore e leader della sua epoca. L’ascolto è ben rievocato in diversi momenti della regola, con diverse accezioni. A proposito del leader-abate che deve prendere una decisione, è scritto:

«Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l’affare in oggetto. Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno. Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore.»

Quanto siamo abituati nelle nostre organizzazioni, nelle nostre comunità, ad ascoltare tutti, anche i meno esperti? Ogni volta che scartiamo l’opportunità di un confronto anche con chi è più giovane o meno esperto, ci precludiamo la possibilità di trovare una soluzione efficace ad un problema. Morris probabilmente è l’esempio eclatante di un leader che ha fatto dell’ascolto e il coinvolgimento di persone “da cui non ti aspetteresti nulla” la ragione del suo successo.

Il mio flusso di pensiero è interrotto da Ilaria che vuole intervenire. L’ascolto per lei è stato un po’ una scoperta nel suo anno e mezzo in LEADIt. 

«Prima dell’ultimo workshop mi si diceva che sono una persona che parla tanto e che non ascolta gli altri. Forse è vero, ma da qualche tempo invece mi sono scoperta diversa. Quello che pensavo di essere prima non è proprio la mia essenza: a me piace ascoltare e cercare di osservare le altre persone per capire cosa gli altri voglio dire prima di esprimere il mio pensiero. 

Adesso mi sento molto più leader e anche molto più a mio agio con ciò che sono. Questo cambiamento l’ho notato nel mio progetto, nell’efficacia nella comunicazione che è migliore. Ora ascolto in modo più attento e osservo cosa fanno gli altri mentre mi parlano, piccoli dettagli che prima non riuscivo a notare. Riesco a comprendere meglio cosa pensano le persone del mio progetto quando gliene parlo. Da qui riesco a capire i limiti del progetto e come coinvolgere maggiormente le persone, il team, i partner e i loro bisogni. 

Sono un leader che è sensibile e che cerca di capire i bisogni degli altri, trasparente e che cerca di comprendere anche quello che le persone non dicono verbalmente.» 

L’argomento sull’ascolto sembra tra quelli che prende più consensi e si scatena un vocio tra cui alla fine domina Isabella.

«Secondo me il percorso in LEADit stimola la capacità di ascoltare gli altri. Parti all’inizio che sei preoccupato più su quello che devi dire che ad ascoltare quanto dicono gli altri.  Poi, dopo un po’ di mesi, ti trovi che inizi a parlare senza sapere dove stai parando: sono gli altri che ti conducono lì 

Riflettendoci è vero: a volte quando siamo in una riunione la preoccupazione del dover dire qualcosa ci impedisce di ascoltare a fondo quello che ci viene detto col rischio che poi la conversazione non sia efficace e che il meeting non porti a nulla. Torniamo a casa ognuno con le proprie idee, magari soddisfatti di essere riusciti a spiaccicare parola, ma senza aver davvero dato senso a quell’incontro. Conviene piuttosto ascoltare e prendere il rischio di lasciarsi guidare dalla conversazione: potremmo arrivare molto più in là di quanto ci aspettiamo.

La scacchiera della leadership.

Come spesso accade, Francesca è rimasta fino a questo momento silenziosa. Ma la conosco ormai bene abbastanza da sapere che basta pazientare e attendere che arrivi il suo momento. 

«Pensando alla leadership mi vengono in mente le dinamiche del gioco degli scacchi. Il Re, che è la pedina da proteggere nel gioco, rappresenta gli ideali del leader. Gli ideali devono essere messi in discussione, ma vanno anche protetti», interviene Francesca. 

Come darle torto? Potrei provocare i ragazzi chiedendo loro quale sia quindi il limite per cui gli ideali e i valori non dovrebbero essere compromessi, ma non interrompo perché Francesca è solo all’inizio della sua condivisione.

«La regina rappresenta il nostro progetto: inizialmente abbiamo la percezione di volerla proteggere. Una volta fatta scattare però, può andare dove vuole. Il nostro progetto deve essere flessibile, soprattutto quando le cose non vanno come vogliamo: dobbiamo essere in grado di accettare dei cambi di direzione.  L’alfiere mi fa venire in mente la lungimiranza di un leader: quando gioco a scacchi è la pedina che più mi “frega” perché posso andare avanti finché voglio, ma non mi accorgo che gli altri mi possono mangiare. Quindi avere quell’occhio di riguardo per le conseguenze delle nostre azioni è fondamentale.  Il cavallo è l’unica pedina che può fisicamente saltare le altre: questa è la capacità di un leader di superare gli ostacoli, saltare le difficoltà.  Il pedone fa passetti sempre piccoli e la maggior parte delle volte è la prima pedina ad essere eliminata: rappresenta quei test che facciamo all’inizio del progetto, che ci permettono di ricevere dei feedback riguardo ciò che stiamo facendo. 

La pedina per me più difficile da gestire è la torre: andare avanti e avere il coraggio di buttarsi anche quando ci vergognamo o siamo titubanti sull’esito della nostra azione. Quando va in orizzontale, la torre cambia il suo punto di vista: può trovare l’escamotage che nella posizione iniziale non vedeva. 

Nel gioco degli scacchi inoltre è fondamentale la collaborazione tra le pedine, bisogna coprirsi e andare avanti tutti insieme. Questo rappresenta lo spirito di squadra nella leadership. Nel mio progetto mi sono accorta di avere un team un po’ distante da me: la parte che mi manca e che ho intenzione di coltivare è quindi proprio la ricerca di collaboratori e di persone che “sono dalla mia parte”.»

Le parole di Francesca colpiscono nel segno. E’ valsa la pena l’attesa per avere degli elementi in più su cui discutere. Ed infatti c’è subito qualcuno pronto a prendere la parola sul tema della squadra. 

«Saper far gruppo, amalgamare le persone con cui si trova a lavorare. Questo è il leader: un motivatore che crea entusiasmo e senso di appartenenza in modo tale che la squadra possa raggiungere l’obiettivo prefissato» interviene Stefano.

Il pensiero di Stefano mi fa riflettere su come sia curioso che ogni ragazzo che si è messo in gioco in questa piccola discussione fino a questo momento abbia messo sul tavolo l’argomento per sé più ostico. L’essere un leader motivatore implica essere una persona con una forte motivazione interiore. La maggior parte dei ragazzi in LEADIt al primo anno si trova molto presto ad affrontare la questione “motivazione” come una delle più difficili. Essere leader è una scelta che richiede forte motivazione. Purtroppo questa va trovata in sé stessi, ogni giorno, e senza di essa non c’è potenziale o opportunità in cui la leadership possa trovare realizzazione.

Questione di priorità.

E’ già da qualche minuto che controllo l’orologio notando che il tempo ormai si sta esaurendo. Il mio tentativo di cogliere le parole di Stefano per avviarci alla chiusura va a vuoto. Alessandro è pronto a tirare in gioco un aspetto che lo riguarda personalmente. Da amante dell’organizzazione non poteva che parlare di gestione del tempo, tema ancora non emerso nella discussione. 

«Un leader deve anche capire quali sono le priorità. Non è mai una questione di tempo, ma un problema di assegnare la giusta priorità alle cose

Anche il tema del tempo è tra i più ostici tra i ragazzi nei primi mesi di LEADIt. Essere leader implica costi oltre che benefici. Quando si avviano progetti, d’improvviso, gli impegni si moltiplicano. Si trascorre meno tempo sui libri, con la famiglia, con gli amici, con la propria ragazza. Non tutti sono disposti o pronti a cambiare la propria routine, per rivedere le priorità per essere al servizio della comunità e si trovano a scegliere di lasciare il programma. 

La discussione sembra esaurirsi a poco a poco; è Isabella del secondo anno a chiudere. Non ha ancora trovato la sua strada in merito a progetti, ma ha un’idea piuttosto chiara di ciò che vorrebbe essere come leader. 

«Sensibilità, empatia e una buona dose di analisi critica. Il leader che vorrei essere è innovativo, abile nel portare il cambiamento ed esplosivo. Trascinatore

Il suo tono è un po’ frustrato perché non è ancora ciò che vorrebbe essere. Ed è così un po’ per tutti coloro che sono in un viaggio alla scoperta della propria identità come leader. 

Possiamo avere mille idee diverse su cosa intendiamo per leadership. Ciò che vale per tutti è che essere leader è possibile attraverso un processo di cambiamento che non capita da qui a domani, che inizia da una scelta: la scelta di essere leader.

 

A cura di Maria Elettra Favotto

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Elettra Favotto
elettraf@leaditalia.com